martedì 22 marzo 2011

APOCRIFI di Luca Martinelli (parte II)



Insomma, di motivi per scrivere un apocrifo ce ne sono davvero tanti.

Ma cosa significa scrivere un apocrifo?

Prima di tutto, significa avere una profonda conoscenza del Canone. Perché è lì, in quelle avventure che tutti abbiamo letto, nelle contraddizioni, nelle allusioni e nelle nascoste indicazioni che contiene, che lo scrittore di apocrifi deve trovare l’indizio sul quale costruire la sua storia.

In secondo luogo, significa conoscere il periodo storico nel quale Holmes si muoveva. È necessario sapere come era Londra sul finire del XIX secolo, come funzionavano i mezzi di trasporto, quali erano le notizie più importanti che apparivano sui giornali, come funzionava la società Vittoriana e quali erano le idee e i preconcetti che l’animavano; e allo stesso tempo è anche necessario sapere cosa succedeva in quegli anni in Europa e nel mondo, la geografia politica di quel momento, perché è bene ricordare che l’Inghilterra era allora l’impero più vasto del pianeta e che a Londra già viveva un coacervo di razze che noi abbiamo conosciuto direttamente solo un secolo più tardi.

In terzo luogo, significa riprodurre la scrittura e lo stile che contraddistinguono i romanzi e i racconti del Canone.

È un’esagerazione? È una pretesa da maniaci, questo ferreo sistema di indicazioni ai potenziali scrittori di apocrifi?

C’è chi in effetti storce il naso di fronte a questo sistema di regole. E ovviamente c’è chi, affrontando la scrittura della sua storia, non le ha rispettate in passato e non le rispetta oggi.
Eppure il non farlo contraddice quanto Conan Doyle, interpretando il pensiero di Watson, scrisse nelle sue memorie: per raccontare le mie storie mi affaccio alla finestra della mia casa e osservo la vita che scorre nella strada. Se così è, come non potremmo – e non dovremmo – farlo noi? E per noi che viviamo più di un secolo dopo Holmes e Watson, cosa significa affacciarsi alla finestra e osservare la vita che scorre nella strada se non seguire le regole alle quali ho accennato prima?

E per andare verso la fine, come ho accennato all’inizio, vorrei segnalarvi qualche apocrifo, sebbene sia un esercizio velleitario. La produzione mondiale è sterminata. Solo in Italia, tra apocrifi italiani e apocrifi stranieri tradotti in italiano, nel 1999 se ne contavano, per difetto, oltre 250.


È simpatico notare che grazie alla fervida immaginazione degli autori, non solo ritroviamo l’eroe di Baker Street impegnato in avventure di matrice canonica classica, ma lo vediamo interagire anche con personaggi reali o fittizi vissuti nell’Europa dell’epoca vittoriana. Non sempre si tratta di testi rispettosi dell’ortodossia di cui vi ho parlato, ma sono comunque rappresentativi del fenomeno degli apocrifa.

Ecco quindi che Sherlock Holmes incontra Einstein (“Sherlock Holmes e Einstein”, di Alexis Lecaye), Dracula (“Sherlock Holmes contro Dracula” di Loren D. Estleman), Arsenio Lupin (“Herlock Sholmes arriva trioppo tardi” e “Arsenio Lupin contro Herlock Sholmes”, di Maurice Leblanc), Freud (“Soluzione sette per cento” di Nicholas Meyer), Guglielmo Marconi (“Sherlock Holmes e l’orrore di Cornovaglia”, di Enrico Solito).

Oppure c’è lo Sherlock Holmes che affronta i grandi misteri o le grandi angosce dell’epoca: il naufragio del Titanic, ad esempio (“Sherlock Holmes e la tragedia del Titanic”, di William Seil), oppure il tentativo di dare un volto a Jack lo squartatore (“Uno studio in nero” di Ellery Queen).

Ma il gioco non si ferma qui. Mark Twain porta Holmes nel selvaggio Far West (“Doppi e doppiette. Come Sherlock Holmes fece una brutta figura nel west”), Isaac Asimov ha curato un’antologia di racconti dal titolo “Sherlock Holmes nel tempo e nello spazio”, Jo Soraes lo porta in Brasil (“Un samba per Sherlock Holmes”) e, Norbu Jamyang ci racconta le avventure tibetane di Holmes (“Il mandala di Sherlock Holmes”).

Ma il tempo è tiranno e mi limiterò ad un’altra citazione soltanto. E lo faccio perché è una citazione che dimostra come si possa scrivere un apocrifo “canonico” senza mai citare Sherlock Holmes e il dottor Watson. Si tratta de “Il nome della rosa” di Umberto Eco che rispetta le caratteristiche dei personaggi, il metodo d’indagine, il climax.

Tutto questo, rimanendo nel solo regno dei libri, e cioè tralasciando l’altrettanto vasta produzione apocrifa del cinema, del teatro, del fumetto.

Ora, se la lettura del Canone vi appassionerà (o vi ha già appassionato), se vi renderà schiavi (o schiavi già lo siete) delle avventure di Holmes e Watson tanto da voler leggere anche gli apocrifi, avrete un bel daffare:vi troverete di fronte ad un numero di titoli impressionante e vi mancherà il tempo per poterne leggere almeno una cospicua parte.

Ma di una cosa potrete stare certi: la compagnia di Holmes saprà ripagarvi di questi piccoli e banali affanni.
(fine)
l'immagine è tratta dal sito fantaclasse.wordpress.com

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